venerdì 5 maggio 2017

FERRARA - LA CITTA' DEGLI ESTENSI




CENNI STORICI


Dopo la caduta dell'Impero Romano nel 476, i vescovi avevano ottenuto una crescita di prestigio che aveva permesso loro di assumere il compito di difesa delle città dalle invasioni barbariche. Durante la dominazione bizantina, tale ruolo era rimasto intatto e la città di Voghera, sede vescovile e avamposto di Ravenna, aveva conservato una certa autonomia, ma, per cause geofisiche (l'inagibilità del Sandalo, ramo del Po, e del sistema portuale) e per l'avanzata dei Longobardi che provenivano da nord-ovest, la città perse di importanza, mentre la zona del ferrarese ebbe una funzione ricettiva che ne consentì lo sviluppo come centro medioevale, nei cui pressi venne costruita la cattedrale (VIII secolo).

Dalle fonti storiche sappiamo della esistenza della città, il ducatus Ferrariae, che venne data nel 757 da Desiderio, re dei Longobardi, al papa Stefano II, da cui il governo fu affidato agli arcivescovi di Ravenna. Ferrara venne poi concessa da Giovanni XV al marchese  Tedaldo di Canossa nel 986, il quale costruì alla estrmità occidentale della città una importante opera difensiva:  Castel Tedaldo, distrutto nel XVII secolo per fare posto ad una fortezza pontificia. Il governo dei Canossa, soprattutto con Matilde, sembra sia stato molto duro e repressivo, tanto da scatenare una rivolta nel 1101. Alla morte di Matilde, le forze locali costituirono un governo autonomo, anche se la città, nominalmente, rimaneva sotto il dominio papale. In questi anni fu trasferita la cattedrale.    




Nel 1264, con l'aiuto dei Veneziani, gli Estensi si imposero nella città con il marchese Obizzo II e poi con Azzo III. Le tensioni con la Santa Sede ed i problemi di successione durarono fino al 1344, anno in cui fu riconosciuto alla casata il ruolo che già ricopriva ; i successivi signori furono Obizzo III (1344 - 1352), Aldobrandino (1354 - 1361) e Nicolò II (1361 - 1388). 


Con il marchese Nicolò III (1393 -1441), la signoria acquisì nel 1430 la Garfagnana; 1438, Ferrara è alla ribalta, perché ospita il  Concilio Ecumenico, indetto per la riconciliazione delle Chiese di Oriente e di Occidente. Il successore Leonello (1441 - 1450)trasformò Ferrara in un centro culturale, sia artistico che didattico; infatti, non solo fu sede della scuola di Guarino da Verona, ma, con l'incremento della università, la Città divenne un polo di richiamo per gli studenti stranieri  e per studiosi invitati per insegnare in ogni facoltà. Si deve a Borso se la città fu insignita della dignità ducale da parte del papa Paolo II nel 1471; al suo nome è inoltre legata la Seconda Addizione.


Ma è con Ercole I che la città raggiunse il suo massimo splendore attraverso la famosa Terza Addizione. Il duca riuscì a mantenere saldamente il potere, nonostante la politica estera fosse molto complessa. Sotto il suo governo si verificarono due eventi che sconvolsero tutta la penisola: le spedizioni di Carlo VIII e Luigi XII in Italia. Inoltre, Ercole I seppe mantenere buoni rapporti con il papa Alessandro VI, facendo sposare il proprio figlio, il futuro Alfonso I, con la figlia del papa, Lucrezia Borgia, tenendo a freno le mire espansionistiche di Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI.

I duchi Alfonso I (1505 - 1534) e Ercole II (1534 - 1559) riuscirono a mantenere il potere destreggiandosi con temibili avversari, quali la Francia, l'Impero, i Turchi Ottomani; inoltre, in questo periodo, le controversie religiose avevano inasprito la politica estera tra i vari paesi. Infatti, Renata di Francia, moglie di Ercole II, in un primo tempo cattolica, si schierò decisamente dalla parte dei riformatori; per questo, nel 1554, intervenne la Inquisizione e furono adottati provvedimenti di censura: la duchessa, riconosciuta eretica, venne rinchiusa per alcuni mesi nel palazzo che porta il suo nome, fino alla abiura.  



L'ultimo duca di Ferrara, Alfonso II (1559 - 1597), non avendo avuto eredi diretti, dovette lasciare il ducato estense allo Stato della Chiesa, secondo l'Editto di Devoluzione. Il papa Clemente VIII non riconobbe mai la legittimità di Cesare d'Este, del ramo di Montecchio, che dovette lasciare la città nel 1598 per raggiungere Modena, dove la casata regnerà per altri due secoli.

La legazione papale conservò il nome di Ducato, ma in realtà la città aveva perso l'antico splendore, sia dal punto di vista culturale che economico; non avendo più il controllo del delta per il graduale insabbiamento del ramo più vicino del Po, a tutto favore di Venezia. Ciò causò un graduale impoverimento; inoltre, la posizione ormai periferica della città portò ad un ristagno culturale. La città era governata dal Cardinale Legato e dal Consiglio Centumvirale, diviso in tre ordini: nobiltà, borghesia, delle Arti.

Dopo la invasione napoleonica del 1796, Ferrara ritornò allo Stato Pontificio fino al 1860, quando, con il plebiscito del 18 marzo, entrò a fare parte del Regno d'Italia.

PERSONAGGI STORICI




Nel ritratto  di Bartolomeo Veneto del XVI secolo(a destra), Lucrezia si sarebbe fatta ritrarre con le sembianze della beata Beatrice II d'Este (1230 circa - 1262 circa). Figlia di Azzo VII d'Este e di Giovanna di Puglia,  Beatrice vestì l'abito benedettino e si ritirò nel monastero di sant'Antonio in Polesine. Lucrezia avrebbe voluto così rimarcare la sua fede e l'appartenenza alla Casa di Este. 

Il ritratto di Dosso Dossi (1474-1542) dà forse la immagine più autentica di Lucrezia. La ritrae con aspetto austero e in abiti scuri in segno di modestia e virtù. E' circondata dal mirto, simbolo di fedeltà e fertilità.  





Lucrezia Borgia, ritratta da Bartolomeo Veneto




Di Bartolomeo Veneto - [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15057786



Alessandro VI Borgia, padre di Lucrezia




Alfonso I d'Este, duca di Ferrara e marito di Lucrezia (attribuito a Bastianino) 





LA CATTEDRALE





































IL CASTELLO









Plastico del Castello























































INTERNO DEL CASTELLO












PALAZZO MUNICIPALE E CENTRO CITTADINO





























CHIESA DI SAN ROMANO




















PALAZZO DEI DIAMANTI







VIA DELLE VOLTE




LE "DELIZIE"






Delizia del Vergnanese


UN BUON PRANZO








Leon d'Oro








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Giovedì 22 giugno 1519 Lucrezia Borgia duchessa d’Este, inferma nella sua stanza del Castello di Ferrara, detta una lettera al papa. Per una difficile gravidanza ha «patito gran male per più di due mesi»: sperava di riprendersi dopo il parto ma «è successo il contrario, in modo che mi è forza concedere alla natura». Riconosce, con una serenità che suscita ammirazione, di essere al «fine della mia vita e sento che fra poche ore ne sarò fuori». Prega dunque Leone X di benedirla, e gli raccomanda il marito e i figli. Il sabato si spegne.

Muore così, a 39 anni, per le complicazioni della quindicesima gravidanza (aveva avuto 6 aborti e 9 parti), cristiana e peccatrice, dopo aver ricevuto i sacramenti della Chiesa, la protagonista più affascinante e controversa del Rinascimento. Bionda, esile, bellissima (come garantisce l’affresco del Pinturicchio in Vaticano), figlia di un papa (il famigerato Alessandro VI), sorella di un assassino (Cesare Borgia, il Principe), cresciuta in una corte dove tutti praticavano sesso e soprusi, il suo solo nome per secoli ha evocato lussuria, incesti, veleni, omicidi (e ciò ancora nutre l’immaginario sull’Italia: si veda la fortunata serie tv del 2011-14).

Questa al papa chiude le Lettere di Lucrezia Borgia 1494-1519, corposo volume edito dalla Direzione Generale Archivi per la curatela di Diane Ghilardo, specialista di architettura e storia delle donne, che ricompone il corpus epistolare di Lucrezia per dissipare definitivamente le calunnie che l’hanno diffamata, e riconoscerle la non comune abilità, pratica e anche politica, sviluppata soprattutto dopo le terze nozze con Alfonso d’Este. Tanto da divenire, durante le molte assenze del consorte (il duca era coinvolto nelle drammatiche guerre d’Italia), una reggente saggia, equilibrata e amata da tutti. Il riscatto di Lucrezia è stato del resto il motore di tutte le biografie moderne a lei dedicate — prima fra tutte quella, ancora magnifica, di Maria Bellonci (1939).

Lucrezia detta ai cancellieri (parecchie lettere, in cifra, sono qui trascritte per la prima volta), ma al padre e ai parenti che lo pretendono scrive di sua mano, in un italiano melodioso, spesso fonetico, ancora libero da norme prescrittive. Le fonti principali sono gli archivi di Mantova e Modena, sicché il volume privilegia gli anni di Ferrara: resta esclusa l’epoca torbida dell’adolescenza romana, e per le lacune degli archivi di Napoli e Urbino è frammentaria quella dei matrimoni con Giovanni Sforza e Alfonso d’Aragona, che Lucrezia contrasse per ragion di stato, scambiata sul mercato matrimoniale come merce preziosa per creare alleanze ai Borgia.

Sono perciò lettere ufficiali: raccontano la vita di una piccola corte italiana e le occupazioni di una sovrana — amministrazione di terre, pascoli e bestie (vacche, bovi, cavalli, galline), manutenzione di fossi e canali, rapporti con capitani, governatori, prelati e monache. Moltissime le raccomandazioni — di paggi, segretari, mori, musici, donzelle — e le preghiere per la liberazione di detenuti e condannati a morte (la frequenza con cui Lucrezia intercede per assassini testimonia l’efferata violenza del tempo).

Continuo l’andirivieni coi Gonzaga di cesti ricolmi di pesci, formaggi, cedri, uva, melangoli, pomaranci, limoni, sicché il lettore rimpiangerà la ricchezza ittica e faunistica dei laghi, dei fiumi e delle paludi padane (bariculi, barboni, carpioni, trote, ostreghe, varoli, calcinelli, peverazze, patelle, meacine, calamari, coturnici, sparvieri, aironi, mele azzerole, tartufoli…). Colpisce la soggezione di Lucrezia per l’altera Isabella d’Este, alla quale si rivolge sempre con umiltà, ma anche crescente consapevolezza di un “comune” destino di donne: esistenze parallele, scandite da gravidanze, parti, solitudini (mariti prigionieri, esuli, lontani). Concede pochi sprazzi su ciò che le «sta nel core».

Le questioni «di grande considerazione» del resto non le affida alle lettere, ma alla “bocca” di persone di cui si fida. Così la vera storia di Lucrezia dobbiamo leggerla nei silenzi e negli accenni a «lachryme e amaritudini» e al suo «immenso dolore», che affiorano tra istruzioni e reverenze formali. La sua fu infatti un’esistenza di separazioni forzate. Dalla madre, Vannozza Cattanei, cui fu strappata quando il padre divenne papa; pure della sua morte fu informata in ritardo, e dovette piangerla in privato: troppo scandalo suscitava ancora il suo ricordo. Dai due figli: l’Infante romano, partorito in convento e di cui si assunse la paternità Alessandro VI (ma era di un paggio, poi annegato nel Tevere da Cesare Borgia), Lucrezia non poté mai rivendicarlo; il secondo, il diletto Rodrigo, cresciuto da altri a una «distantia durissima» per lei, poté incontrarlo solo una volta, quando aveva sei anni.

Sfuggono ai documenti i rapporti con l’impetuoso cognato Francesco Gonzaga e col poeta Bembo: Ghilardo esclude ogni implicazione erotica e sentimentale con entrambi. (Ma Gonzaga si permette di usare «troppo humani termini» sconvenienti con lei, inducendola a protestare per scritto). Al contrario può illuminarsi il legittimo legame col marito. Sottomissione, rispetto, ma anche complicità e tenerezza. Come nel 1518, quando Alfonso è in missione in Francia e lei lo informa sugli affari di stato e però anche sulla salute dei figli (Ercole sta bene, Ippolito ha la varicella, Francesco i vermi ma è grasso, come sana e grassa la puttina Eleonora) e sulla loro nostalgia di lui. Ne esce imprevisto un intimo quadretto familiare: un padre impegnato lontano, i bimbi che spasimano invano la sua buonanotte. Umanissimo il duro Alfonso, affranto per la morte del piccolo Alessandro; umanissima Lucrezia, «donna e madre», travagliata da malattie (malaria, flussi, febbri) e lutti (accettati perché non vede «altro riparo» che conformarsi alla volontà di Dio).

Gentile, premurosa, mai arrogante, insicura e segnata da violenze psicologiche e non: una donna che è stata oggetto e ostaggio della volontà altrui, ma che nella maturità trova la forza di mostrare la sua vera personalità e ottenere perciò rispetto e infine anche amore. Una storia di rinascita: ma Lucrezia Borgia oggi non deve temere censure. Una donna non deve mai vergognarsi di esserlo.





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