Ravenna è oggi una tranquilla città di provincia, ma ha un glorioso passato. E' stata capitale dell'Impero Romano di Occidente dal 402 d.C. e capitale dell'Esarcato bizantino.
Nel III secolo d.C., a causa della crisi dell’Impero, Ravenna decadde a semplice città di provincia, per assurgere poi alla dignità di capitale dell’Impero romano d’Occidente nel 402, quando l’imperatore Onorio lasciò Milano e vi si trasferì ritenendola più sicura. Le sue paludi la rendevano infatti imprendibile; il Po assicurava le comunicazioni; il porto di Classe assicurava l'accesso al mare, dove era incontrastato il dominio romano.
Ravenna registrò ben presto un notevole ampliamento urbano. Ravenna rimase capitale dell'Impero d'Occidente 74 anni durante i quali si succedettero ben 12 imperatori.
Durante l’impero di Onorio, Ravenna acquistò sempre più importanza assunse l'aspetto di una capitale imperiale bizantina, imitando il fasto di Costantinopoli; s’ingrandì, si arricchì di monumenti, di case, di palazzi e fu chiamata “La nuova Roma”.
Nel III secolo d.C., a causa della crisi dell’Impero, Ravenna decadde a semplice città di provincia, per assurgere poi alla dignità di capitale dell’Impero romano d’Occidente nel 402, quando l’imperatore Onorio lasciò Milano e vi si trasferì ritenendola più sicura. Le sue paludi la rendevano infatti imprendibile; il Po assicurava le comunicazioni; il porto di Classe assicurava l'accesso al mare, dove era incontrastato il dominio romano.
Ravenna registrò ben presto un notevole ampliamento urbano. Ravenna rimase capitale dell'Impero d'Occidente 74 anni durante i quali si succedettero ben 12 imperatori.
Durante l’impero di Onorio, Ravenna acquistò sempre più importanza assunse l'aspetto di una capitale imperiale bizantina, imitando il fasto di Costantinopoli; s’ingrandì, si arricchì di monumenti, di case, di palazzi e fu chiamata “La nuova Roma”.
DESCRIZIONE DEI MONUMENTI
SANT'APOLLINARE IN CLASSE
(liberamente tratta da Guida Rossa TCI)
La basilica cemeteriale fu eretta per volontà del vescovo Ursicino tra il 533 ed il 536, grazie ai finanziamenti di Giuliano l'Argentario e consacrata nel 549 dal vescovo Massimiano. Divenne presto il massimo centro di irradiazione del cristianesimo, grazie all'ambiente cosmopolita di Classe. Alla chiesa fu affiancato nel sec. VIII un monastero di Benedettini, passato nel sec. XII ai Camaldolesi che, dopo il saccheggio del 1512 da parte dei Francesi, si trasferirono in città nell'edificio oggi sede della Biblioteca Classense.
In origine la basilica era preceduta da un quadriportico e da un pronao con due torri laterali, ripristinato dal restauro del 1909. La facciata è aperta in alto da una trifora. Sotto il pronao ci sono tre portali, di cui il mediano rialzato. Sulla sinistra si innalza, isolato e possente, il campanile, la più bella tra le torri cilindriche ravennati. Databile dopo il IX sec. è traforato da monofore, bifore e trifore, spartite da colonnine il cui marmo spicca sul rosso del cotto.
Straordinariamente suggestivo e solenne è l'interno a tre navate, spartite da due file di 12 magnifiche colonne in marmo greco, venate trasversalmente, con i bassi e tipici capitelli bizantini "a foglie di acanto mosse dal vento". Del primitivo pavimento a mosaico, sopraelevato in epoca molto antica, rimangono tracce all'inizio della navata destra e in fondo a quella sinistra. Il rivestimento marmoreo della basilica venne in buona parte asportato nel 1449 da Sigismondo Malatesta per ornare il suo Tempio di Rimini. Nel mezzo della navata mediana sorge l'antico altare, eretto nel IX sec. dall'abate Orso e rimaneggiato nel Settecento. Nelle navate laterali all'inizio sono otto colonne isolate (quattro piccole di porfido e quattro grandi di marmo bianco e nero orientale), provenienti da due cibori originali. Lungo le pareti numerose epigrafi di varia epoca e 10 sarcofagi marmorei di arte ravennate. Quelli più interessanti sono nella navata destra: l'ultimo del V sec., con pavoni, colonne e tralci di vite, che accolse nel 693 le spoglie dell'arcivescovo Teodoro; il penultimo con pavoni, tralci di vite, Gesù e gli Apostoli; quello a sinistra dell'ingresso, con croce, agnelli e palme sul lato anteriore, croce inghirlandata tra due pavoni sul lato del coperchio, motivi analoghi sui fianchi. Gli altri sette sono quasi tutti di epoca posteriore.
Il PRESBITERIO sopraelevato sulla cripta è rivestito di splendidi mosaici, eseguiti in epoche diverse che concludono il ciclo musivo conservato a Ravenna. In essi il naturalismo classico cede all'astratto simbolismo bizantino che si esprime in forme più convenzionali. Sul fronte dell'arco trionfale, medaglione con il busto di Cristo benedicente con i simboli degli evangelisti e le città mistiche di Gerusalemme e Betlemme, dalle quali escono i dodici apostoli in figura di agnelli (sec. VII); in basso, lateralmente, due palme dorate, simbolo del martirio (pure sec. VII); più sotto, gli arcangeli Michele e Gabriele (sec. VI) e, ancora in basso, S. Marco e S. Luca (sec. XII). Nel catino dell'abside, figurazione allegorica della Trasfigurazione: il Cristo è rappresentato da una grande croce latina entro un cerchio azzurro stellato; in alto, sullo sfondo di un cielo d'oro, la mano del Padre eterno, sporgendo da nubi sottili, indica Gesù; ai suoi lati, a mezzo busto, Mosè ed Elia; sotto, i tre apostoli che presenziarono all'avvenimento (Pietro, Giacomo e Giovanni), personificati da tre agnelli. Al centro di un prato con piccole rocce alternate a fiori, erbe, piante ed alberi (il Paradiso) è sant'Apollinare in abiti vescovili, orante tra dodici bianchi agnelli che rappresentano i fedeli. Nella zona inferiore dei due riquadri (seconda metà del VII secolo), quello di destra rappresenta i sacrifici di Isacco, Melchisedec e Abramo, quello a sinistra l'imperatore Costantino IV che, insieme con i fratelli Eraclio e Tiberio, consegna al diacono Reparato, protetto dall'arcivescovo Mauro, i privilegi per la chiesa di Ravenna (le teste delle tre figure vennero tutte alterate in epoca posteriore e il mosaico è in gran parte integrato a tempera). Nei vani tra le finestre, i ritratti di Ursicino, Orso, Severo e Ecclesio (metà del sec. VI), i quattro vescovi ravennati, la cui presenza è connessa all'esaltazione di S.Apollinare. Nelle due cappelle ai lati dell'abside, trovano posto i tesori. La cripta, forse risalente ai secoli IX-X, si richiama ai modelli romani ad ambulacro circolare.
SAN VITALE
(liberamente tratta da Guida Rossa TCI)
E' fra le massime testimonianze dell'arte paleocristiana in Italia, frutto del geniale inserimento di moduli costruttivi bizantini in forme spaziali tipiche dell'architettura romana. Pur rappresentando, in analogia con tutti gli altri monumenti edificati all'apice della fortuna di Ravenna, un esterno sobrio in laterizi a vista, è tuttavia fabbrica dalla concezione fastosa e dalla decorazione ricca di implicazioni ideologiche che trascende le esigenze del rito religioso e rivela il disegno di propiziare la penetrazione bizantina in Italia e riaffermare la sacralità del potere imperiale. Si differenzia dai tradizionali schemi basilicali ravennati per l'impianto a base ottagonale e, come le altre chiese paleocristiane ravennati, l'abside rivolta a oriente.
Nella costruzione furono coinvolte alcune delle figure più significative del periodo prebizantino e bizantino:
- il fondatore Ecclesio che la cominciò nel 526 d.C.
- il vescovo Massimiano che nel 547-48 la consacrò
- il banchiere Giuliano l'Argentario, arricchitosi nella guerra greco-gotica, che la finanziò con 26000 soldi d'oro.
Nel nartece a forcipe, già unito a un quadriportico, il pavimento ha mantenuto la quota antica più bassa rispetto a quella del chiostro. Contigue ai lati corti del nartece, precedono il vano ottagonale le due torri scalari, già di accesso al matroneo. Dall'interno è visibile solo quella di sinistra, mentre quella di destra, trasformata in campanile, è chiusa e preceduta da una volta con preziosi stucchi bizantini.
L'interno, straordinariamente suggestivo, armonico e slanciato, produce una impressione profonda per la forma originale della struttura e per la ricchezza del rivestimento marmoreo e musivo, da cui il vario gioco della luce trae effetti sorprendenti. Lo spazio centrale, ottagonale, è sormontato da una cupola circolare sostenuta da otto pilastri, rivestiti di marmo greco e africanone (in gran parte rinnovati nell'Ottocento). Tra i pilastri si apre a sud-est il presbiterio e si incurvano sette nicchie, traforate da due ordini di arcatelle su colonne: le inferiori corrispondono all'ambulacro, le superiori al matroneo. Le pareti perimetrali conservano scarsi resti della primitiva decorazione, che in basso era costituita da un rivestimento marmoreo e da fasce intarsiare e in alto da stucchi dipinti. La cupola ha una leggerissima struttura, costituita da tubi di terracotta, inseriti orizzontalmente gli uni negli altri e una decorazione pittorica del 1780.
Il complesso absidale è una citazione di edifici orientali: affiancano l'abside la "prothesis", oggi Sancta Sanctorum ed il "diaconicon", oggi denominato Cappella della Madonna. Nel presbiterio e l'abside risplendono dei preziosi mosaici che rivestono le pareti e le volte, eseguiti da vari artisti nel secondo quarto del sec. VI. Nell'intradosso del grande arco trionfale sono rappresentati, entro 16 tondi, i busti del Redentore, dei 12 Apostoli, di San Gervasio e San Protasio, presunti figli di San Vitale. In basso due costruzioni marmoree cinquecentesche, completate nei secoli successivi. Oltre l'arco, per ogni lato, si innalzano due colonne con capitelli traforati e pulvini monogrammati che sostengono tre archi, al di sopra dei quali è una lunetta decorata a mosaico. La lunetta destra con le "Offerte di Abele e Melchisedec" è affiancata da storie della vita di Mosè e Isaia. Nella lunetta di sinistra, l'Ospitalità di Abramo e "Abramo che sacrifica Isacco", con ai lati Geremia e "Mosè che riceve le leggi del Sinai". La loggia superiore ripete le forme di quella inferiore ed è decorata con i mosaici degli evangelisti. Nella volta, pure a mosaico, tra magnifici girali di acanto, quattro angeli reggenti una ghirlanda di fiori e frutti, con le braccia rivolte verso l'Agnello mistico". Il senso generale della composizione, svolta secondo uno schema piramidale che ha il vertice nell'Agnello mistico, è di mettere in relazione il tempo dell'annuncio con quello del suo compimento.
Al centro del presbiterio, è un altare del VI sec. La mensa è formata dalla celebre "lastra di alabastro trasparente" e da antiche lastre alabastrine lavorate a bassorilievo. La fronte dell'arcone dell'abside è rivestita di un mosaico con al centro due angeli e ai lati la rappresentazione simbolica delle due città di Gerusalemme e Betlemme. Nel catino, il "Redentore tra due arcangeli che porge la corona del martirio a san Vitale e il vescovo Ecclesio con il modello della chiesa da lui fondata".
Al centro del presbiterio, è un altare del VI sec. La mensa è formata dalla celebre "lastra di alabastro trasparente" e da antiche lastre alabastrine lavorate a bassorilievo. La fronte dell'arcone dell'abside è rivestita di un mosaico con al centro due angeli e ai lati la rappresentazione simbolica delle due città di Gerusalemme e Betlemme. Nel catino, il "Redentore tra due arcangeli che porge la corona del martirio a san Vitale e il vescovo Ecclesio con il modello della chiesa da lui fondata".
MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA
Alla morte dell'imperatore Onorio nel 423, la sorella Galla Placidia (392-450) divenne reggente dell'Impero d'Occidente per il figlio Valentiniano III (419-455) ancora bambino. Grazie a lei la città di Ravenna visse un momento di grande fioritura artistica e di forte rinnovamento architettonico. In questa fase fu edificato il suo mausoleo, parte di un più vasto organismo monumentale, situato nella zona nord-est della città. Il mausoleo, in origine collegato alla chiesa della Santa Croce, oggi distrutta, è tradizionalmente identificato con il luogo di sepoltura di Galla Placidia (che in realtà fu inumata a Roma), ma più probabilmente nacque come sacello dedicato a San Lorenzo. L'esterno del monumento, che presenta una pianta a croce, si caratterizza per la semplicità del paramento murario in mattoni, appena movimentato da una semplice decorazione ad archetti e lesene, che fortemente contrasta con la sfarzosità musiva dell'interno. Probabilmente, però, l'esterno era in origine rivestito da lastre marmoree. Tutto l'edificio oggi si presenta interrato di circa un metro e mezzo rispetto alla situazione originaria, così che la visione complessiva del monumento risulta oggi falsata.
Tuttavia, entrando, si ha la sensazione di penetrare in uno spazio ultraterreno: la luce filtra dalle finestre di alabastro e rimbalza sulle pareti e sulla volta, decorata da mosaici a tema iconografico e disseminata di stelle.
Probabilmente in origine era una cappella o un oratorio della chiesa di Santa Croce, finanziata da Galla Placidia; oggi è un edificio separato, dopo il crollo del portico che li collegava. All'interno della costruzione ci sono tre sarcofaghi di marmo di epoca romana e, per lungo tempo si è creduto che Placidia riposasse in una di essi. In realtà fu sepolta quasi sicuramente a san Pietro nella cappella del fratello Onorio. Purtroppo la cappella fu demolita nel XVI secolo, durante i lavori di costruzione della nuova san Pietro.
SANT'APOLLINARE NUOVO
La chiesa, inizialmente dedicata a Cristo Redentore, fu fatta costruire tra la fine del V e gli inizi del VI secolo da Teodorico e destinata al culto ariano. Durante la dominazione bizantina, quando tutti gli edifici religiosi della città furono riconciliati alla ortodossia cristiana, fu intitolata prima a San Martino di Tours, poi, intorno al IX secolo, a sant'Apollinare, primo vescovo di Ravenna. L'appellativo "Nuovo" fu invece adottato per distinguerla da un'altra chiesa più piccola già esistente in città.
La facciata è oggi preceduta da un semplice portico marmoreo del XVI secolo, mentre al IX o X secolo risale la costruzione del campanile cilindrico che si eleva sul lato destro della chiesa; la massiccia torre in laterizi è alleggerita da una serie di bifore e trifore con colonne marmoree. L'interno, di impianto basilicale, si presenta a tre navate, divise da due file di alte colonne con capitelli corinzi; il pulvino, collocato tra il fusto della colonna e il capitello, conferisce slancio e un senso di leggerezza all'intero complesso.
Nel XVI secolo si realizza un nuovo pavimento, più alto rispetto a quello precedente. Di conseguenza si innalzano anche le arcate della navata, sacrificando la fascia di muratura che si trovava tra le arcate e la prima fascia musiva, probabilmente decorata di stucchi colorati. Contemporaneamente, si amplia l'abside, decorata nel Settecento co succhi barocchi.
I mosaici, risalenti al periodo teodoriciano, rivestono le pareti della navata maggiore e si dividono in tre registri. In quello più alto, collocato sotto l'imposta del soffitto, si susseguono 26 pannelli rettangolari che rappresentano altrettanti episodi della vita di Cristo, intervallati da un motivo decorativo con una nicchia, sovrastata da due colombe, dalle quali pende una corona. Sulla parete sinistra, partendo dall'abside, si distinguono alcune scene della vita pubblica di Gesù e dei miracoli da lui compiuti, come le Nozze di Cana, la Moltiplicazione dei pani e dei pesci e l'Incontro con la Samaritana. Sulla parete di destra i riquadri illustrano le storie della passione. dall'Ultima Cena all'Incredulità di san Tommaso. I questi pannelli colpisce la grande ricchezza narrativa, l'attenzione ai particolari naturalistici, la vivacità dei colori delle vesti dei protagonisti, la resa realistica dei loro movimenti. Gli studiosi riferiscono le due serie di questi episodi a due possibili diversi esecutori: il cosiddetto Artista dei Miracoli, più essenziale e più ieratico, come si addice a scene di miracolo, e l'Artista della Passione, che crea scene affollate di personaggi con annotazioni realistiche.
Nel XVI secolo si realizza un nuovo pavimento, più alto rispetto a quello precedente. Di conseguenza si innalzano anche le arcate della navata, sacrificando la fascia di muratura che si trovava tra le arcate e la prima fascia musiva, probabilmente decorata di stucchi colorati. Contemporaneamente, si amplia l'abside, decorata nel Settecento co succhi barocchi.
I mosaici, risalenti al periodo teodoriciano, rivestono le pareti della navata maggiore e si dividono in tre registri. In quello più alto, collocato sotto l'imposta del soffitto, si susseguono 26 pannelli rettangolari che rappresentano altrettanti episodi della vita di Cristo, intervallati da un motivo decorativo con una nicchia, sovrastata da due colombe, dalle quali pende una corona. Sulla parete sinistra, partendo dall'abside, si distinguono alcune scene della vita pubblica di Gesù e dei miracoli da lui compiuti, come le Nozze di Cana, la Moltiplicazione dei pani e dei pesci e l'Incontro con la Samaritana. Sulla parete di destra i riquadri illustrano le storie della passione. dall'Ultima Cena all'Incredulità di san Tommaso. I questi pannelli colpisce la grande ricchezza narrativa, l'attenzione ai particolari naturalistici, la vivacità dei colori delle vesti dei protagonisti, la resa realistica dei loro movimenti. Gli studiosi riferiscono le due serie di questi episodi a due possibili diversi esecutori: il cosiddetto Artista dei Miracoli, più essenziale e più ieratico, come si addice a scene di miracolo, e l'Artista della Passione, che crea scene affollate di personaggi con annotazioni realistiche.
Nel secondo ordine, all'altezza delle finestre, su ogni parete sono rappresentate sedici scene di profeti, tutti ritratti in una rigida posa frontale. Sono in piedi su un tappeto erboso e con la testa nimbata; con fare inespressivo stringono in mano i cartigli e i libri che caratteizzano il loro ruolo. Del registro inferiore, solo i riquadri posti alla estremità della navata risalgono alla fase teodoriciana, risparmiati dall'intervento che interessò questa parte dei mosaici sotto il vescovo Agnello.
MAUSOLEO DI TEODORICO
Il Mausoleo di Teodorico è privo di decorazione musiva, ma rimane il monumento più rappresentativo del periodo goto. Fu fatto costruire dal re stesso intorno al 520 nella zona della città adibita a cimitero dei goti. Il monumento è costituito da grossi blocchi di pietra d'Istria, connessi fra loro a secco e legati da groppe di ferro. Si articola in due ordini:
- La parte inferiore, di forma decagonale, è scandita da ogni lato da grandi nicchie a tutto sesto. Su una di queste si apre l'entrata che dà accesso ad un vano cruciforme, probabilmente utilizzato per lo svolgimento di riti funebri.
- La parte superiore, anch'essa di forma decagonale, è più piccola di quella sottostante. Al suo interno, un ristretto ambiente circolare accoglie una vasca in porfido.
La salma fu forse traslata dal museo, quando Ravenna passò sotto il dominio di Giustiniano, alla fine della guerra greco-gotica nel 540. Una serie di archi ciechi percorre le pareti esterne, più profondi al piano inferiore e appena accennati al piano superiore, richiamando il motivo del portico, che alleggerisce la mole del Mausoleo.
IMMAGINI DEI MONUMENTI
L'imperatrice Teodora (dal mosaico in San Vitale)
SANT'APOLLINARE IN CLASSE
I sacrifici di Abele, Melchisedec e Abramo
L'imperatore di Oriente Costantino IV, con il figlio Giustiniano II ed i fratelli Eraclio e Tiberio III, offre al diacono Reparato i privilegi della Chiesa ravennate
Simbolo dell'Evangelista Luca
SAN VITALE
L'imperatore Giustiniano
L'imperatrice Teodora
MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA
Cupola
Lunetta
SANT'APOLLINARE NUOVO
La città imprendibile
BATTISTERO NEONIANO (O DEGLI ORTODOSSI)
BATTISTERO DEGLI ARIANI
MAUSOLEO DI TEODORICO
ROCCA BRANCALEONE
ARGOMENTI DI STORIA
"Giustiniano e la "renovatio imperii""
da "Storia medioevale" di Massimo Montanari
Giustiniano regnò per quasi quarant'anni, dal 527 al 565. Perno della sua azione politica fu il progetto di riunificare l'impero, riconquistando i territori della parte occidentale in cui, a seguito dello stanziamento delle popolazioni germaniche, si erano formati i cosiddetti regni romano-barbarici. Obiettivo dell'azione di conquista fu il Mediterraneo: gli eserciti imperiali vennero diretti in un primo tempo contro i Vandali nell'Africa settentrionale, poi contro i Visigoti nella Spagna meridionale e infine contro il regno degli Ostrogoti nella penisola italiana. Le imprese militari condotte dai generali Narsete e Belisario ebbero successo, ma, soprattutto in Italia, comportarono campagne estremamente lunghe e onerose non solo in termini economici.
La guerra greco-gotica durò quasi vent'anni (535-553) e segnò per la penisola il vero crollo della civiltà tardo-antica. In precedenza la politica perseguita dal primo re goto in Italia, Teoderico (493-526), aveva conservato alla aristocrazia senatoria romana i privilegi tradizionali e un ruolo importante nella gestione politica della penisola, pur riservando ai Goti i ruoli chiave nell'esercito. Teoderico aveva anche mantenuto un riconoscimento formale della autorità imperiale di Costantinopoli. Questo sistema di convivenza tra i Goti e i Romani si incrinò. con la morte di Teoderico e si frantumò completamente durante la guerra contro i Bizantini.
In un primo tempo, i Goti e la classe senatoriale romana fecero fronte comune contro l'attacco imperiale. La conquista della penisola partì da sud e il generale Belisario fu costretto a un assedio di ben venti giorni della città di Napoli, che tentò di resistere, coesa, all'esercito bizantino. Ma dopo che, nel 540, fu conquistata la capitale Ravenna e i Goti furono costretti a ritirarsi al di là del Po, l'aristocrazia senatoria si piegò di fronte ai bizantini che comunque avrebbero continuato a garantire la posizione di privilegio economico e politico: in tal modo il fronte italiano si spezzò e i Goti rimasero soli a fronteggiare le truppe imperiali.
Si spiega allora perché il nuovo re dei Goti, Totila (540-552), nel suo programma di riconquista della penisola, non cercò più la collaborazione della classe senatoria , ma piuttosto cercò di attaccarla, incidendo sulla sua capacità economica, con una disposizione che concedeva libertà personale ai coloni dipendenti e, nel contempo, vietava loro di versare canoni e tributi ai padroni. Totila non cercò in tale modo di farsi promotore di una rivoluzione sociale: canoni e tributi dovevano comunque essere versati, ma direttamente al re, e la libertà personale comportava l'obbligo di servire il re combattendo. I coloni dipendenti non aderirono se non in minima parte a tale iniziativa, anzi talvolta combatterono a favore dei padroni tradizionali, dimostrando di non credere a un miglioramento delle loro condizioni sotto un nuovo dominio. Ciononostante Totila riuscì per un breve periodo a riconquistare la maggior parte della penisola; ma infine l'esercito bizantino di Narsete prevalse sui Goti nella battaglia di Gualdo Tadino (552), dove lo stesso re perse la vita. Il suo successore, Teia, venne sconfitto, ancora da Narsete, e così l'intera penisola fu assoggettata nel 553 a Bisanzio. Venti anni di guerra consegnavano però ai vincitori un territorio distrutto, in gran parte spopolato, colpito da una epidemia di peste, lacerato nelle sue componenti etniche e sociali.
Seppure pagata con costi elevatissimi, la politica di Giustiniano segnava, nel 553, un successo completo : tutti i territori che si affacciavano nel Mediterraneo erano nuovamente soggetti alla autorità imperiale e il mare poteva tornare a essere tramite di comunicazioni interne fra le diverse parti dell'impero. Si trattò tuttavia di una situazione effimera: nel 568, l'anno dopo la scomparsa di Giustiniano, la penisola italiana fu occupata dai Longobardi. In breve tempo, poi, gli Arabi avrebbero interrotto definitivamente la egemonia bizantina nel Mediterraneo.
I territori bizantini in Italia
di Massimo Montanari
Seppure pagata con costi elevatissimi, la politica di Giustiniano segnava, nel 553, un successo completo : tutti i territori che si affacciavano nel Mediterraneo erano nuovamente soggetti alla autorità imperiale e il mare poteva tornare a essere tramite di comunicazioni interne fra le diverse parti dell'impero. Si trattò tuttavia di una situazione effimera: nel 568, l'anno dopo la scomparsa di Giustiniano, la penisola italiana fu occupata dai Longobardi. In breve tempo, poi, gli Arabi avrebbero interrotto definitivamente la egemonia bizantina nel Mediterraneo.
I territori bizantini in Italia
di Massimo Montanari
Appena quindici anni dopo la conquista bizantina, nel 568, giunsero in Italia i Longobardi. Le fasi della occupazione furono lunghe e complesse e i Longobardi non riuscirono mai ad ottenere un controllo territoriale complessivo della penisola. L'Istria e la laguna veneta, l'area della attuale Romagna, le Marche settentrionali, parte dell'Umbria e il Lazio, unitamente a Napoli e il suo entroterra, al Salento, alla Calabria ed alla Sicilia rimasero sotto il dominio bizantino: una frattura della unità politica della penisola italiana che avrebbe segnato a lungo la sua storia e che si sarebbe ricomposta solo nel XIX secolo.
L'insieme dei territori rimasto sotto il dominio bizantino venne riorganizzato dal punto di vista amministrativo dall'imperatore Maurizio alla fine del VI secolo e fu affidato a un funzionari, l'esarca, che riuniva in sé tutte le funzioni pubbliche, amministrative, civili e militari. L'esarca risiedeva a Ravenna e doveva esercitare la sua autorità su tutti i territori bizantini della penisola, assoggettati in sede locale a duchi, mentre la Sicilia era governata direttamente da Bisanzio.
L'insieme dei territori rimasto sotto il dominio bizantino venne riorganizzato dal punto di vista amministrativo dall'imperatore Maurizio alla fine del VI secolo e fu affidato a un funzionari, l'esarca, che riuniva in sé tutte le funzioni pubbliche, amministrative, civili e militari. L'esarca risiedeva a Ravenna e doveva esercitare la sua autorità su tutti i territori bizantini della penisola, assoggettati in sede locale a duchi, mentre la Sicilia era governata direttamente da Bisanzio.
Nelle aree bizantine si mantennero alcune caratteristiche peculiari della civiltà romana: l'organizzazione del territorio continuò ad essere imperniata sulle città; il sistema di conduzione fondiaria restò aderente al modello catastale romano, basato sul "fondo" (fundus) e si conservarono grandi proprietà fondiarie, concentrate soprattutto nei patrimoni ecclesiastici. Restò in vigore il sistema normativo romano, ordinato nel codice giustinianeo.
GALLA PLACIDIA
Galla Placidia ricevette da piccola il titolo di "nobilissima", riservato agli aventi diritto alla successione al trono. Nobilissima lo era veramente: il padre era l'imperatore Teodosio e il nonno Valentiniano I. Fu sorella di due imperatori: Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente. Madre di Valentiniano III, regina dei goti, augusta con il marito Costanzo e imperatrice reggente per dodici anni..
La vita di Galla Placidia è stata una avventura, con sullo sfondo l'agonia dell'Impero Romano. Per usare le parole di Lidia Storoni Mazzolani, era nata nel mondo antico, ma morì nel medioevo. Venne alla luce intorno al 390 d.C. a Costantinopoli. La madre morì di parto nella lontana Costantinopoli e il padre si ammalò di idropisia e si spense a Milano. L'orfana Placidia rimase in Italia, sola in terra straniera, e fu affidata alle cure duna cugina paterna, Serena, sposata con Stilicone, l'uomo a cui Teodosio aveva lasciato il comando dell'esercito e che, di fatto, dalla sua morte esercitava la reggenza della parte occidentale dell'impero romano. Si trasferì a Roma, nel palazzo dei Cesari sul Palatino, in una casa piena di intrighi. Capì presto di essere una pedina sul mercato matrimoniale per arrivare al trono. Serena e Stilicone avevano dato in spose entrambe le loro figlie all'imperatore Onorio, il suo fratellastro, ma furono matrimoni senza figli. Allora, per avere nella loro famiglia un erede al trono, fecero fidanzare Galla Placidia con il loro figlio maschio, Eucherio. La giova crebbe quindi accanto al suo promesso sposo, anche se poi il matrimonio non si celebrò.
Rimase a Roma anche nei terribili anni 408 e 409, quando la città era stretta d'assedio dai Goti. Alarico, il loro re, era stato più volte deluso dalle promesse tradite dell'imperatore Onorio e aveva deciso di agire con la forza, bloccando la città e i rifornimenti. Non temeva certo di essere attaccato alle spalle: Onorio se ne stava nascosto nel suo palazzo di Ravenna, città imprendibile per via della sua conformazione lagunare, mentre l'esercito imperiale era ormai allo sbando.
Nel 408 Placidia entrava nelle cronache con la sua prima decisione ufficiale, per lei di grande portata emotiva. La cugina Serena che l'aveva allevata, era stata accusata di avere chiamato i Goti ad assediare Roma, come rappresaglia per la sorte del marito Stilicone, giustiziato in una congiura di palazzo pochi mesi prima. Il senato la condannò a morte. Tuttavia, poiché la donna era imparentata con l'imperatore, non si poteva eseguire la sentenza senza la approvazione di un membro della famiglia imperiale. Roma era cinta d'assedio e Onorio era lontano. Quindi il senato si rivolse a Placidia, il rango più elevato in città, e lei diede il suo assenso. Non spiegò mi il motivo e sono state fatte le ipotesi più disparate: fu plagiata dai senatori? Covava rancori verso la cugina? Fu costretta? Non si sa, ma nella decisione di quella diciottenne si intuisce uno dei tratti della sua personalità autoritaria al limite della implacabilità. Intanto l'assedio di Roma continuava e, anche se Placidia non soffrì la fame e le privazioni, la sua adolescenza fu marcata dalla prigionia in una Roma in rapida decadenza, già mezza spopolata e trascurata dall'imperatore, davanti alla minaccia dei barbari armati alle sue porte. La città cadde nell'agosto 410. I goti vi entrarono e la saccheggiarono. Era inviolata da ottocento anni e la notizia fece rapidamente il giro del mondo romano traumatizzandolo. Roma era stata profanata.
I goti uscirono dalla città tre giorni dopo con una prigioniera illustre: Galla Placidia, sorella dell'imperatore Onorio, e fecero rotta verso sud. Volevano raggiungere l'Africa, il territorio più ricco dell'impero, il suo granaio. Cosa dovette vedere la giovanissima Placidia dalle tendine della sua lettiga durante quel viaggio? Il monaco Rufino di Aquileia , fuggito da Roma, riferì della violenza barbarica, del pericolo delle frecce, dell'incendio della fortezza di Reggio, delle devastazioni di campagne e città. San Girolamo invece trascrisse i racconti degli scampati coperti di ferite che si aggiravano tra i ricoveri dei monasteri, o il dramma di quelli che, non potendo pagare un riscatto, venivano trascinati via come schiavi.
L'impossibilità di reperire navi per la traversata verso l'Africa obbligò i goti ad arrestarsi in Calabria, dove il loro re si ammalò e morì. Secondo lo storico Giordane, sarebbe stato sepolto sotto il letto del fiume Busentocon tutti i suoi tesori. Tutti gli schiavi che avevano lavorato per deviare temporaneamente il corso del fiume, sarebbero stati uccisi, perché non rivelassero l'ubicazione della tomba.
Ad Alarico successe il cognato Ataulfo, che decise di tornare indietro e di riattraversare la penisola verso nord per arrivare in Gallia. Sempre con Placidia chiusa in una lettiga a domandarsi cosa ne sarebbe stato di lei, ripartirono. Non si rattava della cavalcata di un gruppo di guerrieri, ma della migrazione di un popolo con anziani, donne e bambini che vivevano sui carri con tutto quello che possedevano. Da Rutilio Namaziano sappiamo che i goti si lasciarono dietro strade impraticabili, ponti distrutti, locande e campi bruciati.
Placidia doveva essere terrorizzata: cresciuta nel lusso dei palazzi dei Cesari, era finita nelle mani di barbari vestiti di pelli e con i capelli lunghi. Probabilmente era comunque trattata con il prestigio dovuto al suo rango: dopotutto, era lei il bottino più prezioso. La sua era sicuramente migliore rispetto a quella delle patrizie che, per sfuggire alla violenza dell'assedio e del sacco, si erano rifugiate in Africa ed erano state catturate dal comandante romano ribelle Eracliano che le vendette nei postriboli siriani, oppure delle ragazze strappate alle famiglie a Roma per seguire in catene i guerrieri goti. Placidia rimase a lungo prigioniera, dato che i goti aspettavano l'occasione opportuna per scambiarla. Alla fine decisero di alzare la posta: un matrimonio reale con Ataulfo. Lei acconsentì e, nel 414, quattro anni dopo il rapimento, i due si sposarono a Narbona con immensi doni provenienti dal saccheggio delle ville romane e che diventeranno il tesoro dei goti in Spagna. Si è molto speculato su questo matrimonio tra coercizione, fascino e manipolazione, ma è probabile che, dopo una prigionia così lunga, ci fossero stati dei cambiamenti nell'animo di Placidia. Sicuramente, lei aveva influenzato immensamente Ataulfo, un barbaro originari della Pannonia, che fino a pochi anni prima non aveva mai visto la magnificenza dell'impero romano e conosceva solo regolamenti militari e campi a perdita d'occhio da attraversare sui carri. L'uomo che sposò a Narbona era totalmente trasformato: aveva smesso la giacca di rozza pelliccia ed era riccamente vestito, e la sua romanizzazione si deve interamente all'influsso di Placidia.
Il primo matrimonio di un erede imperiale con un barbaro fu un evento epocale. Da prigioniera, Placida aveva aggiunto un altro titolo nobiliare ai tanti che già possedeva: ora era anche regina dei goti. Dopo le nozze, la coppia si trasferì a Barcellona, dove Placidia poté riposare in una casa vera, finalmente al sicuro in una città romana. Pochi mesi dopo, nacque un bimbo, che la coppia decise di battezzare con il nome del nonno: Teodosio. Era chiaro l'intento di dare al piccolo i titoli per essere un pretendente al trono, il primo di sangue misto. Purtroppo, però, il bimbo morì pochi mesi dopo. Fu una perdita che Placidia non dimenticò mai e che sarebbe riaffiorata nell'ultimo istante della sua vita. Nel 415 Ataulfo fu assassinato da uno stalliere e con lui se ne andò la possibilità che nascesse un nuovo erede al trono di sangue misto. Gli successe Sigerico, ostile da subito a Placidia, che umiliò costringendola a camminare per dodici chilometri davanti al suo cavallo.
Il successore, Vallia, era un regnante più accorto. Intanto, a Ravenna, Onorio aveva nominato il patrizio Costanzo suo reggente e questi concordò il riscatto con Vallia. Placidia fece dunque rotta verso Ravenna; dopo anni di nomadismo e di notti sotto le stelle, tornava in una città torbida, silenziosa, dove, secondo Sidonio Apollinare, c'erano solo rane e zanzare. L'accompagnava un drappello di guerrieri goti, come guardia del corpo, che tenne vicino per molti anni a venire.
Costanzo mirava al trono e, all'inizio del 417, la sposò con il consenso di Onorio. Se del matrimonio con Ataulfo si è data una visione romantica, del secondo marito sappiamo, almeno secondo Olimpiodoro, che Placidia lo detestava. Costanzo era un uomo brutto, pragmatico ai limiti della rozzezza, calcolatore, ma capace di organizzare efficientemente le poche risorse dell'impero romano di Occidente al tracollo e difendere i suoi fragili confini. Dall'unione nacquero due figli: Giusta Grata Onoria e Valentiniano. Costanzo salì al trono come co-imperatore nel 421 e lei divenne augusta dell'impero, cioè imperatrice.
Fu un periodo breve e relativamente tranquillo per Placidia, che preferì dedicarsi a sviluppare la sua profonda religiosità, lasciando le decisioni amministrative al marito che, però, morì improvvisamente pochi anni dopo. Vedova per la seconda volta, si ritrovò in una situazione scabrosa. Sempre secondo Olimpiodoro, il fratellastro Onorio mostrò una predilezione incestuosa per Placidia, che però non cedette. La sua posizione a corte scricchiolò fino a farsi insostenibile. Cacciata da Ravenna si rifugiò a Roma per poi imbarcarsi frettolosamente con i suoi figli su una nave diretta a Costantinopoli, la città dove era nata e che aveva lasciato da bambina. Qui però l'accoglienza fu tiepida: in molti non le perdonavano quel matrimonio barbaro che aveva rischiato di inquinare il sangue romano. Lei si ritirò nella casa che la madre le aveva regalato, quando era nata, la Domus Placidiana.
Ma la sua personalità forte e determinata la fece ritornare presto nelle grazie della corte imperiale, fino al momento in cui fu raggiunta dalla notizia della morte di Onorio, che non aveva lasciato eredi. Si doveva trovare in fretta un successore e, tra i pretendenti Placidia era quella che interpretava al meglio la dignità imperiale (era umile, ma fiera) e avrebbe saputo difendere la dinastia. L'imperatore di Costantinopoli Teodosio II fece coniare le prime monete con la sua effigie e la rispedì in Italia con i figli e un esercito per sopraffare l'usurpatore che intanto si era insediato: Giovanni.
Placidia tornava in Italia e lo faceva da imperatrice. Non più sorella, moglie o figlia di imperatori: stavolta era lei a detenere il potere assoluto, e lo esercitò dal 425 al 437. Si installò quindi ad Aquileia e qui aspettò che le truppe di Bisanzio, con un inganno, saccheggiassero Ravenna e le portassero Giovanni in catene. Purtroppo erano anni terribili: i barbari sciamavano per i territori dell'impero romano di Occidente, azzannandone pezzi e mutilandolo con pretese di legittimazione che assomigliavano a ricatti. Le campagne d'Italia erano diventate un campo di battaglia e i tranquilli borghi vennero investiti dalle razzie degli unni e dei goti; frecce e fiamme, saccheggi e stupri.
La violenza irruppe nelle vite di tutti, dalle classi più agiate alla plebe. Era in questo mondo che Placidia prese il potere e, come altri reggenti, non fu capace di fermare la valanga che stava disgregando la integrità dell'impero. Non lasciò quasi mai Ravenna, lonana dai continui fuochi e ribellioni che si accendevano un poco dovunque, ma non riuscivano a raggiungere lei, chiusa nel palazzo imperiale. Negli anni in cui fu imperatrice perse l'Africa del nord, che fu conquistata dai Vandali, quando lei cadde vittima di un inganno perpetrato da Ezio, uno dei tre uomini che aveva messo a capo delle forze armate e che passarono molto tempo a guerreggiare tra di loro, mentre l'impero cadeva a pezzi.
Nel 437, Placidia abdicò a favore del figlio Valentiniano III. Il misticismo era sempre stato un tratto fondamentale del suo carattere e da quel momento si occupò sempre più di questioni religiose. Non era riuscita a tenere in piedi l'impero romano di Occidente , e si impegnò quindi a difendere la ortodossia cattolica contro le eresie ariane e nestoriane. Erano gli anni in cui si facevano intense, a volte persino sanguinose, le dispute teologiche e Placidia era una donna credente e inflessibile che di notte si ritirava dentro la chiesa di san Vitale a Ravenna, al lume di candele, a pregare. Furono poche le apparizioni in pubblico: per onorare le personalità ecclesiastiche, come l'investitura del vescovo Pietro Crisologo, oppure per il suo instancabile lavoro di mecenate di chiese e mosaici.
La sua vita stava volgendo al termine, ma il passato ritornava. Il padre aveva incoraggiato una assimilazione dei barbari nel sangue romano, lei stessa aveva generato il primo pretendente al trono barbaro e ora la figlia Onoria aveva ereditato la sua tempra. Obbligata a fidanzarsi con un senatore anziano, Onoria mandò un anello ad Attila in persona, chiedendo di venire a liberarla. Era il gesto folle di una giovane, ma il re degli unni lo interpretò come una promessa di matrimonio e scese pochi anni dopo in Italia a reclamare la sua sposa - e il titolo di imperatore romano che ne conseguiva. Scoperto l'intrigo, il fratello Valentiniano decise di metterla a morte e solo l'intervento di Placidia potè salvare la ragazzaee commutare la pena in esilio. Ormai Placidia aveva esaurito le forze per lottare: nel 450, forse sentendo la fine vicina, chiese che fosse portata da Barcellona la salma del piccolo Teodosio, il figlio avuto 25 anni prima dal goto Ataulfo e morto infante. Solo quando ebbe il corpo del piccolo accanto a sé morì. Fu quasi certamente sepolta insieme a lui.
L'impossibilità di reperire navi per la traversata verso l'Africa obbligò i goti ad arrestarsi in Calabria, dove il loro re si ammalò e morì. Secondo lo storico Giordane, sarebbe stato sepolto sotto il letto del fiume Busentocon tutti i suoi tesori. Tutti gli schiavi che avevano lavorato per deviare temporaneamente il corso del fiume, sarebbero stati uccisi, perché non rivelassero l'ubicazione della tomba.
Ad Alarico successe il cognato Ataulfo, che decise di tornare indietro e di riattraversare la penisola verso nord per arrivare in Gallia. Sempre con Placidia chiusa in una lettiga a domandarsi cosa ne sarebbe stato di lei, ripartirono. Non si rattava della cavalcata di un gruppo di guerrieri, ma della migrazione di un popolo con anziani, donne e bambini che vivevano sui carri con tutto quello che possedevano. Da Rutilio Namaziano sappiamo che i goti si lasciarono dietro strade impraticabili, ponti distrutti, locande e campi bruciati.
Placidia doveva essere terrorizzata: cresciuta nel lusso dei palazzi dei Cesari, era finita nelle mani di barbari vestiti di pelli e con i capelli lunghi. Probabilmente era comunque trattata con il prestigio dovuto al suo rango: dopotutto, era lei il bottino più prezioso. La sua era sicuramente migliore rispetto a quella delle patrizie che, per sfuggire alla violenza dell'assedio e del sacco, si erano rifugiate in Africa ed erano state catturate dal comandante romano ribelle Eracliano che le vendette nei postriboli siriani, oppure delle ragazze strappate alle famiglie a Roma per seguire in catene i guerrieri goti. Placidia rimase a lungo prigioniera, dato che i goti aspettavano l'occasione opportuna per scambiarla. Alla fine decisero di alzare la posta: un matrimonio reale con Ataulfo. Lei acconsentì e, nel 414, quattro anni dopo il rapimento, i due si sposarono a Narbona con immensi doni provenienti dal saccheggio delle ville romane e che diventeranno il tesoro dei goti in Spagna. Si è molto speculato su questo matrimonio tra coercizione, fascino e manipolazione, ma è probabile che, dopo una prigionia così lunga, ci fossero stati dei cambiamenti nell'animo di Placidia. Sicuramente, lei aveva influenzato immensamente Ataulfo, un barbaro originari della Pannonia, che fino a pochi anni prima non aveva mai visto la magnificenza dell'impero romano e conosceva solo regolamenti militari e campi a perdita d'occhio da attraversare sui carri. L'uomo che sposò a Narbona era totalmente trasformato: aveva smesso la giacca di rozza pelliccia ed era riccamente vestito, e la sua romanizzazione si deve interamente all'influsso di Placidia.
Il primo matrimonio di un erede imperiale con un barbaro fu un evento epocale. Da prigioniera, Placida aveva aggiunto un altro titolo nobiliare ai tanti che già possedeva: ora era anche regina dei goti. Dopo le nozze, la coppia si trasferì a Barcellona, dove Placidia poté riposare in una casa vera, finalmente al sicuro in una città romana. Pochi mesi dopo, nacque un bimbo, che la coppia decise di battezzare con il nome del nonno: Teodosio. Era chiaro l'intento di dare al piccolo i titoli per essere un pretendente al trono, il primo di sangue misto. Purtroppo, però, il bimbo morì pochi mesi dopo. Fu una perdita che Placidia non dimenticò mai e che sarebbe riaffiorata nell'ultimo istante della sua vita. Nel 415 Ataulfo fu assassinato da uno stalliere e con lui se ne andò la possibilità che nascesse un nuovo erede al trono di sangue misto. Gli successe Sigerico, ostile da subito a Placidia, che umiliò costringendola a camminare per dodici chilometri davanti al suo cavallo.
Appena una settimana dopo, fu assassinato anche lui.
Costanzo mirava al trono e, all'inizio del 417, la sposò con il consenso di Onorio. Se del matrimonio con Ataulfo si è data una visione romantica, del secondo marito sappiamo, almeno secondo Olimpiodoro, che Placidia lo detestava. Costanzo era un uomo brutto, pragmatico ai limiti della rozzezza, calcolatore, ma capace di organizzare efficientemente le poche risorse dell'impero romano di Occidente al tracollo e difendere i suoi fragili confini. Dall'unione nacquero due figli: Giusta Grata Onoria e Valentiniano. Costanzo salì al trono come co-imperatore nel 421 e lei divenne augusta dell'impero, cioè imperatrice.
Fu un periodo breve e relativamente tranquillo per Placidia, che preferì dedicarsi a sviluppare la sua profonda religiosità, lasciando le decisioni amministrative al marito che, però, morì improvvisamente pochi anni dopo. Vedova per la seconda volta, si ritrovò in una situazione scabrosa. Sempre secondo Olimpiodoro, il fratellastro Onorio mostrò una predilezione incestuosa per Placidia, che però non cedette. La sua posizione a corte scricchiolò fino a farsi insostenibile. Cacciata da Ravenna si rifugiò a Roma per poi imbarcarsi frettolosamente con i suoi figli su una nave diretta a Costantinopoli, la città dove era nata e che aveva lasciato da bambina. Qui però l'accoglienza fu tiepida: in molti non le perdonavano quel matrimonio barbaro che aveva rischiato di inquinare il sangue romano. Lei si ritirò nella casa che la madre le aveva regalato, quando era nata, la Domus Placidiana.
Ma la sua personalità forte e determinata la fece ritornare presto nelle grazie della corte imperiale, fino al momento in cui fu raggiunta dalla notizia della morte di Onorio, che non aveva lasciato eredi. Si doveva trovare in fretta un successore e, tra i pretendenti Placidia era quella che interpretava al meglio la dignità imperiale (era umile, ma fiera) e avrebbe saputo difendere la dinastia. L'imperatore di Costantinopoli Teodosio II fece coniare le prime monete con la sua effigie e la rispedì in Italia con i figli e un esercito per sopraffare l'usurpatore che intanto si era insediato: Giovanni.
Placidia tornava in Italia e lo faceva da imperatrice. Non più sorella, moglie o figlia di imperatori: stavolta era lei a detenere il potere assoluto, e lo esercitò dal 425 al 437. Si installò quindi ad Aquileia e qui aspettò che le truppe di Bisanzio, con un inganno, saccheggiassero Ravenna e le portassero Giovanni in catene. Purtroppo erano anni terribili: i barbari sciamavano per i territori dell'impero romano di Occidente, azzannandone pezzi e mutilandolo con pretese di legittimazione che assomigliavano a ricatti. Le campagne d'Italia erano diventate un campo di battaglia e i tranquilli borghi vennero investiti dalle razzie degli unni e dei goti; frecce e fiamme, saccheggi e stupri.
La violenza irruppe nelle vite di tutti, dalle classi più agiate alla plebe. Era in questo mondo che Placidia prese il potere e, come altri reggenti, non fu capace di fermare la valanga che stava disgregando la integrità dell'impero. Non lasciò quasi mai Ravenna, lonana dai continui fuochi e ribellioni che si accendevano un poco dovunque, ma non riuscivano a raggiungere lei, chiusa nel palazzo imperiale. Negli anni in cui fu imperatrice perse l'Africa del nord, che fu conquistata dai Vandali, quando lei cadde vittima di un inganno perpetrato da Ezio, uno dei tre uomini che aveva messo a capo delle forze armate e che passarono molto tempo a guerreggiare tra di loro, mentre l'impero cadeva a pezzi.
Nel 437, Placidia abdicò a favore del figlio Valentiniano III. Il misticismo era sempre stato un tratto fondamentale del suo carattere e da quel momento si occupò sempre più di questioni religiose. Non era riuscita a tenere in piedi l'impero romano di Occidente , e si impegnò quindi a difendere la ortodossia cattolica contro le eresie ariane e nestoriane. Erano gli anni in cui si facevano intense, a volte persino sanguinose, le dispute teologiche e Placidia era una donna credente e inflessibile che di notte si ritirava dentro la chiesa di san Vitale a Ravenna, al lume di candele, a pregare. Furono poche le apparizioni in pubblico: per onorare le personalità ecclesiastiche, come l'investitura del vescovo Pietro Crisologo, oppure per il suo instancabile lavoro di mecenate di chiese e mosaici.
La sua vita stava volgendo al termine, ma il passato ritornava. Il padre aveva incoraggiato una assimilazione dei barbari nel sangue romano, lei stessa aveva generato il primo pretendente al trono barbaro e ora la figlia Onoria aveva ereditato la sua tempra. Obbligata a fidanzarsi con un senatore anziano, Onoria mandò un anello ad Attila in persona, chiedendo di venire a liberarla. Era il gesto folle di una giovane, ma il re degli unni lo interpretò come una promessa di matrimonio e scese pochi anni dopo in Italia a reclamare la sua sposa - e il titolo di imperatore romano che ne conseguiva. Scoperto l'intrigo, il fratello Valentiniano decise di metterla a morte e solo l'intervento di Placidia potè salvare la ragazzaee commutare la pena in esilio. Ormai Placidia aveva esaurito le forze per lottare: nel 450, forse sentendo la fine vicina, chiese che fosse portata da Barcellona la salma del piccolo Teodosio, il figlio avuto 25 anni prima dal goto Ataulfo e morto infante. Solo quando ebbe il corpo del piccolo accanto a sé morì. Fu quasi certamente sepolta insieme a lui.
San Giovanni appare a Galla Placidia, che lo ringrazia per averla salvata da un naufragio.
Dipinto di Nicolò Rondinelli della fine del XV secolo. Milano - Pinacoteca di Brera
Stilicone con la moglie Serena e il figlio Eucherio - Tesoro del Duomo di Monza
Stilicone, l'uomo a cui Teodosio I aveva affidato l'impero alla sua morte, era un vandalo, sposato con una romana. Anni dopo la congiura che lo travolse e che gli costò la vita, toccava a un altro generale con marcate ascendenze barbare difendere l'impero romano: Ezio. Da giovanissimo fu dato in ostaggio, prima ai goti, poi agli unni, con i quali sviluppò un profondo legame, imparandone la cultura, la lingua e il modo di combattere. Tornato nelle legioni romane, si servì a lungo di mercenari unni nelle sue campagne ed è una amara ironia che sia ricordato soprattutto per la vittoria ai Campi Catalaunici, dove l'esercito romano che comandava inflisse una pesante sconfitta agli Unni. Fu ucciso da Valentiniano III durante una lite. .
PALAZZO IMPERIALE
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