CENNI STORICI
Con il marchese Nicolò III (1393 -1441), la signoria acquisì nel 1430 la Garfagnana; 1438, Ferrara è alla ribalta, perché ospita il Concilio Ecumenico, indetto per la riconciliazione delle Chiese di Oriente e di Occidente. Il successore Leonello (1441 - 1450)trasformò Ferrara in un centro culturale, sia artistico che didattico; infatti, non solo fu sede della scuola di Guarino da Verona, ma, con l'incremento della università, la Città divenne un polo di richiamo per gli studenti stranieri e per studiosi invitati per insegnare in ogni facoltà. Si deve a Borso se la città fu insignita della dignità ducale da parte del papa Paolo II nel 1471; al suo nome è inoltre legata la Seconda Addizione.
PERSONAGGI STORICI
LA CATTEDRALE
IL CASTELLO
INTERNO DEL CASTELLO
PALAZZO MUNICIPALE E CENTRO CITTADINO
CHIESA DI SAN ROMANO
PALAZZO DEI DIAMANTI
VIA DELLE VOLTE
LE "DELIZIE"
UN BUON PRANZO
Giovedì 22 giugno 1519 Lucrezia Borgia duchessa d’Este, inferma nella sua stanza del Castello di Ferrara, detta una lettera al papa. Per una difficile gravidanza ha «patito gran male per più di due mesi»: sperava di riprendersi dopo il parto ma «è successo il contrario, in modo che mi è forza concedere alla natura». Riconosce, con una serenità che suscita ammirazione, di essere al «fine della mia vita e sento che fra poche ore ne sarò fuori». Prega dunque Leone X di benedirla, e gli raccomanda il marito e i figli. Il sabato si spegne.
Muore così, a 39 anni, per le complicazioni della quindicesima gravidanza (aveva avuto 6 aborti e 9 parti), cristiana e peccatrice, dopo aver ricevuto i sacramenti della Chiesa, la protagonista più affascinante e controversa del Rinascimento. Bionda, esile, bellissima (come garantisce l’affresco del Pinturicchio in Vaticano), figlia di un papa (il famigerato Alessandro VI), sorella di un assassino (Cesare Borgia, il Principe), cresciuta in una corte dove tutti praticavano sesso e soprusi, il suo solo nome per secoli ha evocato lussuria, incesti, veleni, omicidi (e ciò ancora nutre l’immaginario sull’Italia: si veda la fortunata serie tv del 2011-14).
Questa al papa chiude le Lettere di Lucrezia Borgia 1494-1519, corposo volume edito dalla Direzione Generale Archivi per la curatela di Diane Ghilardo, specialista di architettura e storia delle donne, che ricompone il corpus epistolare di Lucrezia per dissipare definitivamente le calunnie che l’hanno diffamata, e riconoscerle la non comune abilità, pratica e anche politica, sviluppata soprattutto dopo le terze nozze con Alfonso d’Este. Tanto da divenire, durante le molte assenze del consorte (il duca era coinvolto nelle drammatiche guerre d’Italia), una reggente saggia, equilibrata e amata da tutti. Il riscatto di Lucrezia è stato del resto il motore di tutte le biografie moderne a lei dedicate — prima fra tutte quella, ancora magnifica, di Maria Bellonci (1939).
Lucrezia detta ai cancellieri (parecchie lettere, in cifra, sono qui trascritte per la prima volta), ma al padre e ai parenti che lo pretendono scrive di sua mano, in un italiano melodioso, spesso fonetico, ancora libero da norme prescrittive. Le fonti principali sono gli archivi di Mantova e Modena, sicché il volume privilegia gli anni di Ferrara: resta esclusa l’epoca torbida dell’adolescenza romana, e per le lacune degli archivi di Napoli e Urbino è frammentaria quella dei matrimoni con Giovanni Sforza e Alfonso d’Aragona, che Lucrezia contrasse per ragion di stato, scambiata sul mercato matrimoniale come merce preziosa per creare alleanze ai Borgia.
Sono perciò lettere ufficiali: raccontano la vita di una piccola corte italiana e le occupazioni di una sovrana — amministrazione di terre, pascoli e bestie (vacche, bovi, cavalli, galline), manutenzione di fossi e canali, rapporti con capitani, governatori, prelati e monache. Moltissime le raccomandazioni — di paggi, segretari, mori, musici, donzelle — e le preghiere per la liberazione di detenuti e condannati a morte (la frequenza con cui Lucrezia intercede per assassini testimonia l’efferata violenza del tempo).
Continuo l’andirivieni coi Gonzaga di cesti ricolmi di pesci, formaggi, cedri, uva, melangoli, pomaranci, limoni, sicché il lettore rimpiangerà la ricchezza ittica e faunistica dei laghi, dei fiumi e delle paludi padane (bariculi, barboni, carpioni, trote, ostreghe, varoli, calcinelli, peverazze, patelle, meacine, calamari, coturnici, sparvieri, aironi, mele azzerole, tartufoli…). Colpisce la soggezione di Lucrezia per l’altera Isabella d’Este, alla quale si rivolge sempre con umiltà, ma anche crescente consapevolezza di un “comune” destino di donne: esistenze parallele, scandite da gravidanze, parti, solitudini (mariti prigionieri, esuli, lontani). Concede pochi sprazzi su ciò che le «sta nel core».
Le questioni «di grande considerazione» del resto non le affida alle lettere, ma alla “bocca” di persone di cui si fida. Così la vera storia di Lucrezia dobbiamo leggerla nei silenzi e negli accenni a «lachryme e amaritudini» e al suo «immenso dolore», che affiorano tra istruzioni e reverenze formali. La sua fu infatti un’esistenza di separazioni forzate. Dalla madre, Vannozza Cattanei, cui fu strappata quando il padre divenne papa; pure della sua morte fu informata in ritardo, e dovette piangerla in privato: troppo scandalo suscitava ancora il suo ricordo. Dai due figli: l’Infante romano, partorito in convento e di cui si assunse la paternità Alessandro VI (ma era di un paggio, poi annegato nel Tevere da Cesare Borgia), Lucrezia non poté mai rivendicarlo; il secondo, il diletto Rodrigo, cresciuto da altri a una «distantia durissima» per lei, poté incontrarlo solo una volta, quando aveva sei anni.
Sfuggono ai documenti i rapporti con l’impetuoso cognato Francesco Gonzaga e col poeta Bembo: Ghilardo esclude ogni implicazione erotica e sentimentale con entrambi. (Ma Gonzaga si permette di usare «troppo humani termini» sconvenienti con lei, inducendola a protestare per scritto). Al contrario può illuminarsi il legittimo legame col marito. Sottomissione, rispetto, ma anche complicità e tenerezza. Come nel 1518, quando Alfonso è in missione in Francia e lei lo informa sugli affari di stato e però anche sulla salute dei figli (Ercole sta bene, Ippolito ha la varicella, Francesco i vermi ma è grasso, come sana e grassa la puttina Eleonora) e sulla loro nostalgia di lui. Ne esce imprevisto un intimo quadretto familiare: un padre impegnato lontano, i bimbi che spasimano invano la sua buonanotte. Umanissimo il duro Alfonso, affranto per la morte del piccolo Alessandro; umanissima Lucrezia, «donna e madre», travagliata da malattie (malaria, flussi, febbri) e lutti (accettati perché non vede «altro riparo» che conformarsi alla volontà di Dio).
Gentile, premurosa, mai arrogante, insicura e segnata da violenze psicologiche e non: una donna che è stata oggetto e ostaggio della volontà altrui, ma che nella maturità trova la forza di mostrare la sua vera personalità e ottenere perciò rispetto e infine anche amore. Una storia di rinascita: ma Lucrezia Borgia oggi non deve temere censure. Una donna non deve mai vergognarsi di esserlo.
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